
“Quando viaggio so bene quel che fuggo, ma non quello che cerco”. Scadeva il Cinquecento quando il saggio Montaigne viaggiava in Europa. Due secoli dopo l’idea del viaggio già si ribaltava a suon di Grand Tour consumati in Italia per amor di scienza e conoscenza: gli inglesi sapevano perfettamente quello che ne Bel Paese si doveva esplorare, ammirare, apprendere. Con umiltà, tanto puntiglio e senza fretta.
Oggi invece si corre, si viaggia sul web si crede di sapere tutto di tutti in anticipo. Per esempio che a Shangai e all’Havana calzavano Nike e mangiano linguine al pesto, come a Roma divorano sushi e sashimi. Insomma, si vede tanto ma si guarda e si scopre poco, cercando poi indigene e singolari performance che anche i turisti “per caso” accarezzano più col denaro che con l’informazione e l’attenzione. Perfino il viaggio-fuga sulle onde di un sogno liberatorio dagli impegni quotidiani, scolastici o familiari che siano, si brucia sul monitor a scapito del viaggio perlustrativo. E con una curiosità proporzionale alla distanze: più lontana è la meta virtuale, più fantastico e divertente è il tour e maggiore, perciò, la percezione del distacco e dell’appagante evasione. Perché nella mente del viaggiatore la distanza spaziale diventa distanza temporale. Ciò spiega l’incubo dei viaggi esotici e oltre oceanici – da Cuba alle Hawaii – proposti dagli invasivi e totemici spot pubblicitari che esaltano, perenni, un mare turchese e una spiaggia di borotalco. O quello della carta stampata che spinge all’effimero godimento delle destinazioni più cool, trendy, smart come, oggi, l’East End londinese, il Prenzlaur Berg berlinese, l’Arabat moscovita, il Marais parigino. Per non dire del viaggio-mito e del mito del viaggio, magari a cavallo di una moto sulle orme di “Easy Rider” o di “Diario di una motocicletta” in compagnia di uno zaino, che Che e del Jim Hendrix. Importante è partire, ingollare il vento di terre lontane e vagabondare sulla scia di Pitea, l’esploratore greco che per primo navigò il “mare coagulato” del Baltico. Giusto ed entusiasmante; ma non sufficiente. Perché se è chiaro che costumi ed abitudini sono ormai omologati, è altrettanto indissolubile che i paesaggi assoluti (dal Cervino alla Monument Valley, dai Llanos venezuelani al delta del Don o ai fiordi Norvegesi), come quelli storicamente ben modellati dall’uomo (dai vigneti della Borgogna alle risaie cinesei), valgono sì il viaggio ma meritano un contatto consapevole.
E gli osannati luoghi comuni, quelli certificati e ufficialmente riconosciuti? Non bastano in se medesimi quando ovunque ormai dieci celebri insegne hanno uniformato anche le storiche piazze più belle d’Europa, incanalando lo sguardo profano più su un paio di scarpe che sui fregi di un palazzo barocco. Non bastano quando anche le più belle e spettacolari architetture contemporanee di Frank Gehry o Santiago Calatrava, di Norman Foster o Renzo Piano diventano segni e simboli da consumare per dovere, Non bastano quando anche il viaggio “intelligente” ha come meta l’imperdibile mostra tematica del giorno, frutto più dell’improvvisazione che della ricerca però promossa dalla pubblicità con martellante tenacia. Ci si diverte e si impara di più tra le straniere genti che affollano in ogni dove i mercati alimentari. E allora, dove andare? Ovunque, ma informandosi, comunicando e osservando. Fotografando con gli occhi. Qualunque luogo “altro” e diverso solletica ed emoziona, se non si pattina la superficie perché ciò si può fare calpestando il pavimento di casa.
Il viaggiare non è istruttivo a ogni costo; può aprire la mente, può ampliare la tolleranza delle abitudini altrui, può sollecitare paragoni e innescare interrogativi. Può essere bagaglio e non baule di idee e di svaghi: basta trasportarsi adeguatamente, e non essere trasportati.
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